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Genova, 20 luglio

di Carlo Molinaro


Le bandiere di cento colori,
gli striscioni di stoffa leggera, i grappoli
di palloncini in volo, i ragazzi
così diversi, le mani pitturate
di bianco e le ragazze variopinte
coi fianchi nudi e teneri e un pavese
di mutande stese, per irridere l'unto
maggiordomo prostrato ai potenti
che toglie ai balconi allegria e biancheria.

È una festa di popolo, una vera
festa, lontana dalle sagre puzzolenti
di sponsor subrettine e telequiz
- ma altrettanto lontana dalle muffe
di nostalgie di polche e di palchetti.

È qualcosa di nuovo, è una danza
che da piazza Manin giù per via Assarotti
(Genova nome barbaro: Caproni, Montale, Sbarbaro)
scende a onde, cantando canzoni
d'un futuro che parte dall'antico
e ritrova armonia, felicità. Ma c'è un muro
grigiospinato in fondo e certo è un simbolo,
è una tela dipinta a ricordare
qualcosa, io penso, dev'essere parte
del gioco e della festa.
No, mi volto
(gira la carta si vede la guerra)
e mi accorgo di quanto sono sciocco
- ho appena telefonato ad amici rimasti
a casa e ho detto "è bello, è tranquillo,
non c'è da preoccuparsi".

Scende come una nube nera e non è sogno
ma è il prezzo del sogno: sui teneri fianchi
delle ragazze, sulle mani bianche
alzate come al cielo in un naufragio
s'abbatte la furia delle guardie dell'impero
del Potere-Denaro e Denaro-Potere,
l'invidia feroce di chi non sapendo
vivere la vita la vuole comprare.

Ci sarà da lottare.
 
 
 
 

  

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